Gershon Baskin

Gershon Baskin

Dopo 69 giorni di stallo, la corsa a ostacoli dei negoziati tra Israele e Hamas dovrebbe ripartire domani da Doha. L’undicesimo viaggio nella regione del segretario di Stato, Antony Blinken, ha, di certo, smosso le acque. Il momento è cruciale. In poco più di due mesi, la guerra ha subito un’accelerazione inattesa. Prima l’uccisione di Hassan Nasrallah, poi il fronte Libano, l’Iran. Infine, la morte “per caso” di Yahiya Sinwar. I colloqui si svolgeranno per la prima volta senza la sua ombra ingombrante. Una «finestra di opportunità», la chiamano gli esperti, per mettere fine al conflitto e liberare gli ostaggi, mai come ora a rischio.

«Non sappiamo quanti siano vivi. Hamas stessa non lo sa: mi ha detto che le occorrono tra i tre e i cinque giorni di cessate il fuoco totale per capire dove si trovino e in che condizioni.

Possono essere con vari gruppi, con individui, in edifici che sono stati bombardati… Si è anche diffusa la voce che Sinwar avrebbe dato ordine di ucciderli in caso di sua morte, ma non sappiamo se sia vero». Per israeliani e palestinesi, Gershon Baskin è semplicemente il mediatore. Non solo perché è riuscito a negoziare la liberazione del soldato Gilad Shalit nelle mani del gruppo armato per cinque anni e quattro mesi. Baskin, per tutta la vita, ha cercato di tessere ponti tra due popoli indissolubilmente uniti e ferocemente divisi. Lo fa anche ora in piena guerra. Il “mediatore”, insieme al collega palestinese Samer Sinjilawi, sta lavorando con l’ex premier israeliano Ehud Olmert e l’ex diplomatico palestinese Nasser al-Kidwa per una soluzione politica del conflitto.

Come nasce questa iniziativa?

Ehud Olmert è il premier che è arrivato più vicino a un accordo con Abu Mazen. Poi il negoziato si è interrotto con le sue dimissioni e vicende giudiziarie. L’ho, dunque, contattato per chiedergli se fosse disposto a riprovare. Data la scarsa legittimità di Abu Mazen, con Samer Sinjilawi abbiamo individuato come controparte Nasser al-Kidwa, ex ambasciatore nonché nipote di Yasser Arafat.

Che cosa prevede il piano?

Innanzitutto, fermare la guerra e instaurare a Gaza un governo civile di tecnocrati senza la partecipazione di Hamas. Secondo, la soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967. Terzo, un accordo per la divisione di Gerusalemme da cui sia, però, esclusa la città vecchia che verrebbe amministrata da cinque Paesi, Giordania, Arabia Saudita, Usa, oltre a Israele e Palestina.

Come volete portare avanti il piano?

Per convincere le rispettive opinioni pubbliche della sua fattibilità, dobbiamo avere il sostegno della comunità internazionale. Stiamo lavorando su questo. L’abbiamo presentato in vari Paesi arabi e in Europa, Italia inclusa. Abbiamo anche potuto esporlo a papa Francesco ed è stato molto incoraggiante.

Ma come fermare la guerra? Hamas lascerebbe davvero il controllo di Gaza?

Così mi ha detto, il 10 settembre. Se Hamas affermasse in pubblico quel che sostiene in privato, potremmo mobilitare l’opinione pubblica internazionale e premere su Benjamin Netanyahu. Ma non vuole farlo. Teme di mostrarsi debole.

Che cosa dice in privato?

Di essere disposta a un accordo che preveda la fine della guerra, il ritiro israeliano e lo scambio tra gli ostaggi e i prigionieri palestinesi in un arco di tre settimane. Per saggiare la disponibilità di Hamas, Israele potrebbe accordare un cessate il fuoco breve per dare il modo ai miliziani di produrre la lista dei rapiti ancora in vita.

Netanyahu accetterebbe?

Solo se gli Usa gli fanno pressione, altrimenti non si fermerà. Biden deve decidere se vuole essere ricordato come il presidente della guerra a Gaza o il presidente che ha messo fine alla guerra a Gaza. Qui si gioca la sua eredità politica.

Abu Mazen che ruolo giocherebbe?

Ad Abu Mazen resta una sola cosa da fare: nominare un premier con legittimità come Nasser al-Kidwa e trasferirgli i poteri di governo. Poi, lui può restare presidente a vita, con un ruolo di garanzia. Anche in questo caso, deve essere spinto a farlo dal mondo.

E Marwan Barguthi?

Marwan Barguthi è ancora in carcere. Non sappiamo se e quando sarà rilasciato. È un simbolo, quando sarà, potrà essere presidente.

Dopo tanto provare e riprovare, come fa a credere ancora nella pace?

Come potrei non farlo? Alla fine del conflitto ci saranno comunque sette milioni di israeliani e sette milioni di palestinesi fra il Giordano e il mare. Questa deve essere l’ultima guerra.

originally Published at
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/israele-gershon-baskin-iniziativa-pace

Categories: Interviews

Lucia Capuzzi

Lucia Capuzzi

Lucia Capuzzi graduated in Political Science, followed by a doctorate in the History of Political Parties and Movements at Urbino University. She studied Italian emigration to Argentina after the Second World War. Based on this study, she published The imagined frontier: social and political analysis of Italian emigration in Argentina after the Second World War (2006). From 2004, she decided to become a journalist, attending a Masters at Cattolica University of Milan, with a dream: reporting on the reality of her beloved Latin America. She works at the International Affairs Desk of the Italian newspaper Avvenire, covering Latin American affairs. Before this, she worked on the science news programme Leonardo of the Italian public service broadcaster RAI. She is the author of Haiti. Il silenzio infranto (2010), Adiós Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro (2011, written with Nello Scavo), Colombia. La guerra (in)finita (2012), Coca rosso sangue (2013), Rosa dei due mondi. Storia della nonna di Papa Francesco (2015), I narcos mi vogliono morto (2017, written with Alejandro Solalinde), Il giorno prima della pace (2019) and Frontiera Amazzonia (2019, written with Stefania Falasca).