«Non sappiamo quanti siano vivi. Hamas stessa non lo sa: mi ha detto che le occorrono tra i tre e i cinque giorni di cessate il fuoco totale per capire dove si trovino e in che condizioni.
Possono essere con vari gruppi, con individui, in edifici che sono stati bombardati… Si è anche diffusa la voce che Sinwar avrebbe dato ordine di ucciderli in caso di sua morte, ma non sappiamo se sia vero». Per israeliani e palestinesi, Gershon Baskin è semplicemente il mediatore. Non solo perché è riuscito a negoziare la liberazione del soldato Gilad Shalit nelle mani del gruppo armato per cinque anni e quattro mesi. Baskin, per tutta la vita, ha cercato di tessere ponti tra due popoli indissolubilmente uniti e ferocemente divisi. Lo fa anche ora in piena guerra. Il “mediatore”, insieme al collega palestinese Samer Sinjilawi, sta lavorando con l’ex premier israeliano Ehud Olmert e l’ex diplomatico palestinese Nasser al-Kidwa per una soluzione politica del conflitto.
Come nasce questa iniziativa?
Ehud Olmert è il premier che è arrivato più vicino a un accordo con Abu Mazen. Poi il negoziato si è interrotto con le sue dimissioni e vicende giudiziarie. L’ho, dunque, contattato per chiedergli se fosse disposto a riprovare. Data la scarsa legittimità di Abu Mazen, con Samer Sinjilawi abbiamo individuato come controparte Nasser al-Kidwa, ex ambasciatore nonché nipote di Yasser Arafat.
Che cosa prevede il piano?
Innanzitutto, fermare la guerra e instaurare a Gaza un governo civile di tecnocrati senza la partecipazione di Hamas. Secondo, la soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967. Terzo, un accordo per la divisione di Gerusalemme da cui sia, però, esclusa la città vecchia che verrebbe amministrata da cinque Paesi, Giordania, Arabia Saudita, Usa, oltre a Israele e Palestina.
Come volete portare avanti il piano?
Per convincere le rispettive opinioni pubbliche della sua fattibilità, dobbiamo avere il sostegno della comunità internazionale. Stiamo lavorando su questo. L’abbiamo presentato in vari Paesi arabi e in Europa, Italia inclusa. Abbiamo anche potuto esporlo a papa Francesco ed è stato molto incoraggiante.
Ma come fermare la guerra? Hamas lascerebbe davvero il controllo di Gaza?
Così mi ha detto, il 10 settembre. Se Hamas affermasse in pubblico quel che sostiene in privato, potremmo mobilitare l’opinione pubblica internazionale e premere su Benjamin Netanyahu. Ma non vuole farlo. Teme di mostrarsi debole.
Che cosa dice in privato?
Di essere disposta a un accordo che preveda la fine della guerra, il ritiro israeliano e lo scambio tra gli ostaggi e i prigionieri palestinesi in un arco di tre settimane. Per saggiare la disponibilità di Hamas, Israele potrebbe accordare un cessate il fuoco breve per dare il modo ai miliziani di produrre la lista dei rapiti ancora in vita.
Netanyahu accetterebbe?
Solo se gli Usa gli fanno pressione, altrimenti non si fermerà. Biden deve decidere se vuole essere ricordato come il presidente della guerra a Gaza o il presidente che ha messo fine alla guerra a Gaza. Qui si gioca la sua eredità politica.
Abu Mazen che ruolo giocherebbe?
Ad Abu Mazen resta una sola cosa da fare: nominare un premier con legittimità come Nasser al-Kidwa e trasferirgli i poteri di governo. Poi, lui può restare presidente a vita, con un ruolo di garanzia. Anche in questo caso, deve essere spinto a farlo dal mondo.
E Marwan Barguthi?
Marwan Barguthi è ancora in carcere. Non sappiamo se e quando sarà rilasciato. È un simbolo, quando sarà, potrà essere presidente.
Dopo tanto provare e riprovare, come fa a credere ancora nella pace?
Come potrei non farlo? Alla fine del conflitto ci saranno comunque sette milioni di israeliani e sette milioni di palestinesi fra il Giordano e il mare. Questa deve essere l’ultima guerra.
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